Clima, da Lima a Parigi 2015: la farsa dei “vertici” e la roadmap dei movimenti

Clima e sistema economico. Quale nemico da combattere?

di Laura Greco (A Sud) per [asud.net]

Quello che sta accadendo dal 1994 ad oggi, nel susseguirsi dei tanti vertici sul cambiamento climatico che vedono la governance mondiale riunirsi da 20 anni per cercare soluzioni ed immaginare strategie per uscire dall’attuale crisi ambientale, è una vera e propria dichiarazione di guerra al clima.

Le dichiarazioni di Ban Ki-moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite, a pochi giorni dall’apertura dei lavori della 20° Conferenza della Parti Onu sui Cambiamenti Climatici, esprimono la sfida esattamente in questi termini: “Credo fermamente che ognuno di noi possa convertirsi in un leader della lotta contro il cambiamento climatico”. Stesso stile hanno tutti i discorsi di funzionari di organismi internazionali e governi convinti unanimemente della necessità di combattere un nemico comune. Come se il cambiamento climatico fosse un nemico naturale, al pari del terrorismo, che dobbiamo combattere tutti partecipando alla crociata globale. Non a caso la Conferenza delle Parti sul Clima (Cop 20) di questi giorni si sta svolgendo al cosiddetto “Piccolo Pentagono” di Lima, la base militare statunitense, a dimostrazione che il climate change rappresenta una vera minaccia alla sicurezza internazionale e va affrontato militarmente. Siccità, alluvioni, migranti ambientali e, soprattutto, la necessità di proteggere le risorse scarse del pianeta, necessitano dell’uso della forza e di interventi decisi e concreti.

Segno che è davvero difficile ma sopratutto poco conveniente focalizzare l’attenzione sul vero nemico, un sistema economico ormai al collasso ed un modello di sviluppo che ha portato al surriscaldamento globale e alla drammatica emergenza ambientale e sociale che oggi stiamo vivendo. Meglio trasformare il cambiamento climatico in un cattivo da sconfiggere, rinunciando per sempre alla comprensione profonda del fenomeno.

Gli attori del gioco: scienza, governance e lobbies economiche

Pur essendo accertate ormai le conseguenze del cambiamento climatico sulle nostre vite, risulta quanto mai necessario che il mondo scientifico ribadisca con forza quale sia l’andamento della temperatura globale e ne chiarisca gli effetti, nel breve, medio e lungo periodo.

Il 2 novembre a Copenhagen è stato presentato ufficialmente all’Assemblea dell’ONU il V rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). I risultati della ricerca sottolineano che la temperatura è aumentata di 0,85 °C nella bassa atmosfera terrestre dalla fine del XIX secolo e il livello degli oceani è salito di 19 cm. Per quanto riguarda le indicazioni per il futuro relativamente alle emissioni, non vi sono sconti e la prospettiva si rivela molto più drammatica di quanto non sia mai stato dichiarato nei rapporti precedenti: le emissioni mondiali a effetto serra dovranno diminuire tra il 40 e il 70 per cento entro il 2050 rispetto al 2010, e scomparire totalmente entro il 2100. Nel 2100 inoltre l’energia da fonti fossili dovrà essere eliminata completamente investendo gradualmente tutte le risorse per incentivare l’uso delle energie rinnovabili.

Il rapporto indica inoltre che non c’è davvero più tempo, in 15 anni è indispensabile invertire la rotta per cercare di salvare il salvabile. Unica via d’uscita. Senza se e senza ma.

È partendo da queste certezze scientifiche che la Cop 20 di Lima dovrebbe impostare i propri lavori puntando alla formulazione di un piano programmatico da presentare ed approvare al più importante e determinante appuntamento del 2015: la Cop 21 di Parigi.

Scelte politiche che non dovrebbero essere subordinate al potere di multinazionali e lobbies economiche, come invece ha mostrato il fallimento della Cop di Varsavia del 2013 e il più recente incontro a New York di settembre, nel quale circa 120 capi di stato hanno accettato l’invito di Ban Ki-moon di discutere di clima nel percorso di avvicinamento a Parigi.

A New York la presenza ingombrante degli amministratori delegati delle principali multinazionali e lobbies economiche mondiali, ha dimostrato ancora una volta quanto le politiche energetiche e ambientali vengano definite nel contesto del mercato e nell’interesse del settore privato, prima ancora che della sovranità dei popoli e delle nazioni. Banale e scontato, viste le conseguenze delle politiche nazionali sui territori e sulle comunità locali, ma quanto mai pericoloso di fronte all’attuale scenario economico mondiale ed alla progressiva erosione di spazi di agibilità democratica da parte di governi complici e sottomessi al grande capitale.

Transizione: questione di volontà politica

I numeri e le valutazioni econometriche spiegano meglio di qualsiasi teoria quali sarebbero i vantaggi nel lungo termine di una reale transizione verso un modello economico davvero sostenibile. Secondo studi recenti infatti, vengono spesi ogni anno a livello globale circa 600 mld di dollari in sussidi alle fonti fossili. Solo 1/6 di questa cifra viene invece investita per le fonti rinnovabili.

Nei prossimi 15 anni verranno realizzati circa 90.000 miliardi di investimenti in infrastrutture, che corrispondono a 6.000 miliardi l’anno. Se si volesse investire in infrastrutture volte all’implementazione di energie rinnovabili, si dovrebbero investire circa 6.270 miliardi l’anno. La spesa che eccede verrebbe ripagata dal risparmio dei costi in termini di minori impatti ambientali e sulla salute delle persone. Si pensi che i danni sanitari dovuti ai gas climalteranti nei 15 paesi con le emissioni più alte raggiungono il 4% del Pil. E se guardiamo alla politica italiana e ai recenti provvedimenti dello “Sblocca Italia”, che prevede un incremento delle trivellazioni ed in generale l’implementazione di interventi volti alla cementificazione e costruzione di infrastrutture, non di certo per promuovere la costruzione di impianti per la produzione di energia rinnovabile, capiamo come la tendenza sia davvero opposta e contraria, lontana da un approccio lungimirante ed economicamente oltre che ambientalmente conveniente.

Fumo negli occhi

Forse per dare un segnale di cambiamento, per preannunciare che la Cop di Lima di questi giorni e quella di Parigi del 2015 segneranno davvero la differenza e sigleranno accordi vincolanti, Cina e USA a inizio Novembre hanno siglato un accordo storico sul taglio delle emissioni di Co2 negli anni a venire. I leader delle due più grandi superpotenze mondiali, Obama e Xi Jinping, sembrano aver fatto una mossa epocale, gli Stati Uniti impegnandosi a diminuire le proprie emissioni del 26-28 per cento al 2025, rispetto ai livelli del 2005, mentre la Cina ha dichiarato la propria intenzione di ridurre il picco delle emissioni entro il 2030, raggiungendo per tale data una quota del 20 per cento di energia da fonti non fossili.

Tuttavia, andando a leggere i dati e i valori di riferimento, ci si accorge che dietro le dichiarazioni si nasconde una realtà diversa. Il compromesso di Obama sembra addirittura un passo indietro se si pensa che, durante la Conferenza di Copenaghen del 2009, gli Stati Uniti avevano dichiarato che avrebbero ridotto le proprie emissioni di CO2 del 30 per cento al 2025. Per quanto riguarda la Cina, invece, preoccupano le tempistiche: un’importante riduzione delle emissioni dovrebbe avvenire molto prima del 2030.

Questi i segnali che precedono l’inizio dei lavori a Lima, dove da martedì 9 dicembre la conferenza è entrata nel vivo con la sessione “ministeriale” che si concluderà il 12 dicembre con la definizione delle intese in vista della Cop21 che si svolgerà alla fine del 2015 a Parigi.

Le contraddizioni dell’Italia a Lima

Il ministro dell’ambiente italiano Galletti, ha portato a Lima un contributo sul valore delle foreste, come strumento di assorbimento della Co2, in particolare delle foreste alpine, dichiarando quali e quanti siano i servizi ecosistemici in termini di valore per le popolazioni locali e per l’ambiente. Viene da chiedersi come le politiche italiane che favoriscono la costruzione di infrastrutture in particolare per il trasporto delle merci o per la produzione di energia da fonti fossili, siano compatibili con tali priorità, e quali siano gli investimenti che ogni anno vengono destinati ad opere che mettono a rischio la tutela degli ecosistemi montani. Nel nostro paese l’assenza di regole efficaci di tutela dei bacini idrografici e dei deflussi idrici ha portato negli ultimi anni ad una vera e propria corsa alla costruzione di nuove centrali idroelettriche, con oltre 1500 istanze attualmente pendenti nelle regioni alpine e centinaia nelle Regioni del Centro-Sud.

A dimostrazione dell’incoerenza tra dichiarazioni di intenti e pratiche che portano alle emergenze ambientali a cui assistiamo ogni anno e che non si avvicinano in alcun modo a visioni che costruiscono un futuro climaticamente sostenibile.

Storia di un fallimento annunciato

A Lima le 190 delegazioni provenienti da tutto il mondo sembrano condividere lo spirito delle enunciazioni per un futuro sostenibile che trovano ampio spazio nelle dichiarazioni di intenti espresse nelle negoziazioni relative a finanza, mitigazione, tecnologia, assetti istituzionali. Al centro del negoziato c’è stata la trattativa sulla cosiddetta Piattaforma di Durban, che contiene una serie di indicazioni rispetto alle attività di mitigazione, finanziarizzazione e riduzione delle emissioni. Quello che probabilmente verrà rinominato “Lima Action Plan” Piano di Azione di Lima.

L’Accordo di Lima arriva dopo i vari fallimenti delle Cop degli anni passati e verrà utilizzato come documento programmatico ai tavoli di Parigi nel 2015.

A Copenaghen la Cop 15 del 2009 non riuscì a colmare le aspettative e speranze che aveva generato e fallì nell’intento di arrivare a un accordo giuridicamente vincolante di riduzione delle emissioni. E questo insuccesso costituì una importante tappa nel consolidamento del movimento globale per la giustizia climatica che in quei giorni si riunì e fu duramente represso in Danimarca. Copenhagen fu la prima grande dimostrazione dell’incapacità di rendere davvero vincolanti le decisioni della governance globale in materia di riduzione delle emissioni, approvazione di fondi compensativi su mitigazione e adattamento, riconoscimento di politiche per evitare la deforestazione e la degradazione dei boschi.

A Cancun nel 2010, oltre ad avere per la prima volta condiviso l’obiettivo di mantenere l’innalzamento della temperatura sotto i 2 °C, furono istituiti i primi meccanismi in materia di adattamento (il contenimento dei danni causati dal cambiamento climatico) e di trasferimento di tecnologie, come il Cancun Adaptation Framework e il Technology Mechanism. Fu anche messo a punto il Green Climate Fund, fondo di supporto a favore dei paesi in via di sviluppo che dovrebbe arrivare a stanziare globalmente 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020.

Alla Cop 17 del 2011 a Durban si decise di dare il via ai negoziati per un nuovo trattato globale (come se ce ne fossero pochi). La definizione di una forma giuridicamente vincolante fu posticipata al 2015 per entrare in vigore nel 2020. Il processo, chiamato Piattaforma d’azione di Durban (Durban Platform), porterebbe a un nuovo protocollo, un altro strumento giuridico o concordato, applicabile a tutte le Parti della Convenzione sul clima dell’Onu, ma non ancora ratificato di fatto da nessuno. Ancora una volta, si rimanda la definizione ed attuazione di soluzioni concrete.

Infine, alla Cop 19 di Varsavia dello scorso anno è stato chiesto alle parti di esprimere su base volontaria i contributi nazionali di mitigazione, ed è stato lanciato il meccanismo internazionale sul Loss and Damage, finalizzato a dare supporto alle situazioni in cui l’adattamento al cambiamento climatico non è più possibile, come nel caso di alcune isole del Pacifico destinate a scomparire per l’innalzamento del livello degli oceani.

Altre storie scritte dai popoli

Per ogni Cop c’è anche un’altra storia da raccontare.

A Lima, mentre al “pentagonito” i capi di stato, i ministri, i funzionari dei governi mondiali fingono di assumere decisioni positive per le sorti del nostro pianeta, cercando “false soluzioni” che perpetuano sotto la denominazione “green”, o “climaticamente intelligente”, le stesse politiche capitaliste e neoliberiste che hanno portato all’attuale crisi, dall’8 al 12 dicembre, parallelamente al vertice ufficiale, organizzazioni sociali e movimenti popolari hanno dato vita ad uno spazio di discussione ed azione alternativo.

Più di 8.000 delegati di circa 200 organizzazioni da 30 paesi si sono riuniti al Parque de las Exposiciones per continuare a costruire proposte e alternative che guardano ad una cambiamento radicale del Paradigma di civiltà, alla definizione di negoziazioni giuste per i popoli del sud e del nord del mondo per far fronte al cambiamento climatico, alla promozione di un modello energetico fondato sulla riduzione delle emissioni, alla sovranità alimentare e a modelli agricoli alternativi agli attuali, alla gestione sostenibile delle risorse del territorio, alla critica dei sistemi di finanziamento per il trasferimento di tecnologie e conoscenze per far fronte al cambiamento climatico, al ruolo delle donne nella difesa della vita e della sostenibilità ambientale.

Sono questi gli assi tematici della Cumbre de los Pueblos (il Vertice dei Popoli), che eredita il successo di un altro importante appuntamento per il movimento globale per la giustizia ambientale e climatica. A New York, il 21 settembre scorso, in concomitanza con l’appuntamento dei capi di Stato convocati da Ban Ki-moon, hanno manifestato più di 400 mila persone per far sentire la loro voce all’Assemblea Generale dell’ONU.

Come a New York, anche a Lima il 10 dicembre hanno sfilato alla Marcia mondiale per il Clima migliaia di manifestanti sotto le parole d’ordine “Cambiare il sistema non il clima”, denunciando il sistema capitalista predatorio e rivendicando con forza la necessità di costruire sistemi sociali ed economici volti al buen vivir, al sumak kausay, ad un modello costruito in armonia con la natura e nel rispetto degli ecosistemi che ci ospitano.

Le ricette “giuste” per una roadmap dei movimenti

Non si tratta solo di slogan e visioni di un mondo altro, ma di proposte concrete e soluzioni praticabili che i movimenti globali sottopongono alla politica e all’opinione pubblica mondiale, tracciando una loro roadmap per uscire dalla crisi di civiltà in cui siamo immersi.

A New York, nel settembre scorso, è stato divulgato un documento condiviso da più di 330 organizzazioni e movimenti mondiali, tra cui La Via Campesina, Oliwatch, Migrants Rights International e Global Forest Coalition, che propone nel dettaglio 10 “ricette giuste” da mettere in campo subito per un cambio radicale del modello.

Le 10 “ricette giuste” per prevenire il caos climatico sono: 1. Prendere impegni vincolanti per contenere l’aumento della temperature planetaria entro i 1.5ºC entro questo secolo, riducendo le emissioni di gas climalteranti a 38 miliardi di tonnellate entro il 2020. 2. Lasciare che la Terra riposi rinunciando a più dell’80% delle riserve di combustibili fossili nel sottosuolo. 3. Uscire dalle logiche dell’estrattivismo con una moratoria a tutte le nuove esplorazioni e ai nuovi sfruttamenti di petrolio, sabbie bituminose, rocce scistose, carbone, uranio e gas naturale. 4. Accelerare lo sviluppo e la transizione alle energie rinnovabili alternative come vento, solare, geotermico e mare con un maggiore controllo e proprietà pubblici e delle comunità. 5. Promuovere produzione e consumo locale di beni ed evitare il trasporto di beni che possono essere prodotti localmente. 6. Stimolare la transizione da un’agricoltura industrializzata a una produzione basata sulle comunità nel quadro della sovranità alimentare. 7. Adottare e applicare strategie rifiuti zero per il riciclo e il conferimento dei rifiuti e l’ammodernamento degli edifici per un minor consumo di energia per il riscaldamento e il raffrescamento. 8. Migliorare ed espandere il trasporto pubblico per le persone e per le merci all’interno dei centri urbani e tra le città. 9. Sviluppare nuovi settori dell’economia per creare nuova occupazione capace di riequilibrare il sistema Terra. 10. Smantellare le infrastrutture dell’industria di guerra per ridurre le emissioni generate dall’economia di guerra e riallocare i budget di guerra per promuovere un vero futuro di pace.
Una piattaforma che si contrappone a quella istituzionale, con richieste precise ed argomentate, sostenute da ricercatori, scienziati e intellettuali di tutto il mondo.

Questioni di giustizia

Il movimento per la giustizia climatica mondiale, cresciuto e maturato all’ombra dei tanti summit susseguitisi senza alcun successo, propone soluzioni che facciano luce sulle reali responsabilità che multinazionali e governi hanno nelle continue violazioni ai diritti delle persone e della natura come contributo all’ingiustizia climatica ed ambientale. Nasce con questo obiettivo il Tribunale Internazionae dei Diritti della Natura, un tribunale d’opinione che formula le sue risoluzioni basandosi sulla Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra e la Costituzione ecuadoriana.

E proprio a Lima ha visto la sua seconda convocazione da parte dell’Alleanza Globale per i Diritti della Natura, il gruppo internazionale di giudici, composto tra gli altri da Alberto Acosta, economista ed ex Presidente dell’Assemblea Costituente di Quito, Blanca Chancoso, leader indigena ecuadoriana, Francios Houtart, membro del Tribunale Permanente dei Popoli. Il Tribunale si è riunito il 5 e 6 dicembre presso il “Gran Hotel Bolivar”, nel centro storico di Lima. Tra i casi sottoposti all’attenzione dei giudici, e presentati dai testimoni, vi sono i casi “Cambiamento climatico e false soluzioni”, esposto da Pablo Solon (Bolivia) e Nnimmo Bassey (Nigeria); “Il fracking e le sabbie bituminose negli Stati Uniti,” “Il caso di Chevron Texaco e la contaminazione petrolifera in Ecuador”, esposto dall’avvocato Pablo Fajardo.

Tra i testimoni che sarebbero dovuti intervenire al Tribunale c’era anche Josè Isidro Tendetza Antun. Josè non è potuto venire, è stato torturato ed assassinato in Ecuador pochi giorni fa. Era un leader ecuadoriano dell’etnia Shuar che si batteva contro l’attività di un’impresa mineraria nazionale e da tempo aveva subito minacce ed intimidazioni.

A dimostrazione di quanto ancora la repressione violenta di forme di dissenso sia drammaticamente presente e di quanto un movimento globale per la giustizia ambientale e climatica sia oggi più che mai necessario per organizzare la protesta e difendere i tanti attivisti che nei sud come nel nord del mondo rischiano le loro vite in difesa non solo del loro futuro ma di quello dell’intera umanità.

A Lima i lavori si concluderanno con l’ennesimo fallimento e qualche finto concordato da portare a Parigi. In compenso la mobilitazione globale per la giustizia climatica ha fatto un altro passo avanti. Il movimento si rafforza, cresce e sviluppa proposte e alternative, preparandosi alla Cop21, dove se non verranno assunti accordi vincolanti, farà sentire ancora una volta la propria voce.