Verso Parigi: la preparazione dei negoziati per l’accordo sul clima fra ritardi e proposte poco ambiziose

co2[di Silvia Schiavi per A Sud] Al 31 marzo, prima scadenza del processo preparatorio del un nuovo accordo sul clima atteso per il prossimo dicembre, solo 34 paesi su 195 hanno presentato i loro “Intended Nationally Determined Contributions”. Fra questi UE, Messico, Stati Uniti, Russia. Ma queste prime proposte non sono sufficienti ad assicurare il contenimento dell’aumento della temperatura globale auspicato dalla comunità scientifica

 

Il primo quarto del 2015: questo il termine che la Conferenza delle Parti aveva fissato per la presentazione, per quegli Stati “pronti a farlo”, dei loro “Intended Nationally Determined Contributions” (INDCs), dapprima a Varsavia (dec. 1/CP.19), nel 2013, e poi di nuovo a Lima (dec. 1/CP.20) nel 2014.

 

Questi “contributi nazionali” rappresentano degli input chiave per le negoziazioni del nuovo accordo internazionale sul clima che si intende siglare durante la COP21 (Parigi, dicembre 2015) e che entrerà in vigore nel 2020, subentrando al Protocollo di Kyoto. L’accordo servirà a definire il percorso verso l’obiettivo del contenimento del surriscaldamento globale, alla fine del secolo, al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-industriali.

 

Dietro all’indicazione di questa prima scadenza c’era la consapevolezza della necessità di presentare i piani nazionali di transizione energetica con largo anticipo rispetto all’appuntamento di Parigi, così da avere il tempo di valutare, confrontare fra loro gli impegni annunciati e rivederli verso l’alto.

 

A Lima l’invito rivolto alle Parti veniva integrato dalla richiesta di esprimere gli INDCs “in una maniera che facilitasse chiarezza, trasparenza e comprensione”, e di specificare come, secondo ciascuna, i rispettivi contributi si configurassero come “giusti ed ambiziosi”, alla luce delle circostanze nazionali e di come essi sarebbero andati a concorrere alla realizzazione dell’obiettivo della Convezione così come espresso al suo Articolo 2.

 

Ma quanti sono gli stati che al 31 marzo 2015 hanno effettivamente presentato i propri contributi nazionali? E quanti di questi questi possono ritenersi “giusti e ambiziosi”?

 

Un’interessante analisi a tal proposito la fornisce la Reseau Action Climat-France, rappresentante francese del Climate Action Network.

 

A questa data, solo 34 paesi su 195 hanno presentato i proprio contributi nazionali: in ordine cronologico, Svizzera, Unione Europea, Norvegia, Messico, Stati Uniti, Gabon, Russia. Gli altri grandi paesi emettitori di gas serra hanno annunciato che avrebbero posticipato la presentazione dei loro piani, facendola slittare in avanti – laddove “avanti” può arrivare fino ad ottobre: Cina, Australia, Giappone, Brasile, Canada, India, Nuova Zelanda, etc. Il governo cinese ha dichiarato, a fine marzo, che contava di sottoporre i suoi impegni al Segretariato della UNFCCC entro la fine del primo semestre 2015.

 

Lo slittamento in avanti del calendario di deposizione degli impegni delle Parti risulta sotto diversi aspetti problematico. Più i paesi accumulano ritardo, infatti, meno essi saranno motivati a confrontare i rispettivi impegni con quelli degli altri ed a rivederli verso l’alto. Inoltre, ciò rende tutt’altro che semplice il lavoro di valutazione e comparazione ad opera della società civile e delle Nazioni Unite.

 

L’obiettivo iniziale delle INDCs era in fondo proprio questo. I negoziati internazionali sul clima possono esser visti un po’ come una partita di poker, con alcuni paesi che, come giocatori che bluffano, non mettono giù tutte le loro carte al primo giro.

 

È già chiaro che i contributi nazionali non saranno sufficienti perché si possa rimanere al di sotto dei 2°C, come sopra accennato. Gli impegni ad oggi annunciati sono sì una significativa prima tappa nella transizione del nostro sistema energetico, attraverso il superamento delle fonti fossili verso l’impiego del 100% di rinnovabili. Ma i paesi devono considerare di spingersi oltre se realmente si intende godere di tutti i benefici della transizione energetica e mantenere l’innalzamento della temperatura al di sotto dei 2°C.

 

Uno studio recente pubblicato dal New Climate Institute contabilizza i co-benefici supplementari che potrebbero essere ottenuti da Cina, Stati Uniti ed Europa se questi si spingessero un po’ oltre con le loro proposte iniziali. Se i tre grandi inquinatori annunciassero impegni conformi ad un processo di transizione energetica verso l’obiettivo 100% rinnovabili entro il 2050, essi creerebbero fino a 3 milioni di posti di lavoro aggiuntivi da qui al 2030, e risparmierebbero 2 milioni di vite umane, salvate dagli impatti nefasti dell’inquinamento dell’aria. Risparmierebbero fino a 520 miliardi di dollari all’anno grazie alla riduzione delle importazioni di combustibili fossili. Se tutti i paesi assumessero impegni paragonabili, la temperatura media del pianeta rimarrebbe sotto la soglia dei 2°C di riscaldamento, soglia al di là della quale gli scienziati intravedono un pericoloso sconvolgimento del sistema climatico.

 

UE: L’unione Europea ha presentato il suo contributo a marzo. Esso sortisce dal Pacchetto Clima-Energia 2030, deciso ad ottobre 2014 dai capi di stato e di governo dei 28 stati membri, ma prima di presentarlo alla Convenzione ONU sul clima, i ministri europei avevano da rivederne i dettagli. Risultato: il piano rimane relativamente vago e insufficiente in confronto alla parte di sforzi che spetta all’Europa. Rimane altresì da consolidare la credibilità dell’espressione “almeno” posta dai dirigenti europei davanti all’obiettivo di una riduzione del 40% delle emissioni di gas serra da qui al 2030 (rispetto ai livelli del 1990).

 

SVIZZERA: La Svizzera prevede di ridurre le emissioni del 50% (sempre rispetto al 1990) da qui al 2030, di cui almeno un 30% nel suo territorio, ed il resto attraverso riduzione di emissioni all’estero. È però ancora insufficiente, dal momento che il Paese ha forti capacità. Inoltre, il piano prevede un uso alquanto indulgente dei metodi di contabilizzazione relativi ai pozzi di carbonio. Infine, il contributo della Svizzera deve ancora essere confermato dal voto del parlamento nazionale.

 

NORVEGIA: La Norvegia è allineata alla proposta europea di riduzione di “almeno il 40%” delle emissioni da qui al 2030. Ma la Norvegia è un paese produttore di petrolio, dunque molto inquinante. Ed è un paese ricco, che pertanto possiede una forte capacità d’azione. Avrebbe perciò potuto adottare un obiettivo più ambizioso. Tanto più che esso imbroglia nella contabilizzazione, includendo nel suo obiettivo la CO2 assorbita dalle sue foreste, quando le regole utili a contabilizzare il ruolo delle foreste sono ancora molto approssimative.

 

MESSICO: Il Messico è stato il primo paese in via di sviluppo a presentare il suo contributo nazionale, il che dovrebbe incitare gli altri PVS a rispettare le scadenze. Esso ha avanzato una proposta sull’attenuazione, ed una sull’adattamento (la prima contenente una condizionalità). Il paese si impegna in ogni caso ad una riduzione del 25% al 2030. Le emissioni culmineranno nel 2026, per poi abbassarsi. Esso propone inoltre di ridurre l’intensità di carbone del suo PIL (CO2 emesso per ogni unità di PIL prodotto) del 40% al 2030 (dal livello del 2013). Per quanto concerne la parte condizionale dell’impegno annunciato, si prevede una riduzione dei gas serra del 36% con l’appoggio internazionale. Le ONG messicane chiedono però maggior dettaglio sul come questo obiettivo sarà raggiunto, e il governo ha dichiarato che potrebbe rivedere al rialzo questo obiettivo nel tempo.

 

STATI UNITI: Gli Stati Uniti hanno presentato il proprio impegno sul clima il 31 marzo stesso. La proposta americana è conforme all’annuncio fatto assieme alla Cina nel novembre 2014. Gli USA si sono impegnati a ridurre le loro emissioni di gas serra dal 26 al 28% da qui al 2025 (rispetto ai livelli del 2005). Si stima che questo piano permetterà la creazione circa 470.000 posti di lavoro nel settore delle rinnovabili ed eviterà, ogni anno, circa 7.000 decessi prematuri legati causati dall’inquinamento atmosferico (secondo il sopracitato studio del New Climate Institute).

 

Questa iniziale proposta degli Stati Uniti rappresenta un primo passo credibile dal momento che essa può essere messa in atto senza il consenso del Congresso, a maggioranza repubblicana. Ma il contributo americano è insufficiente e dovrà essere rinforzato per approfittare appieno delle potenzialità del Paese in materia di rinnovabili. Gli Stati Uniti sono il secondo paese al mondo per emissioni, e per lungo tempo sono stati in prima posizione nella classifica. Per questa ragione la loro azione ha un gran peso sul bilancio climatico. Degli studi mostrano che una riduzione delle emissioni americane del 40% da qui al 2025 (rispetto al livello 2005) sarebbe possibile (Scenario Energy (R)evolution di Greenpeace). Se gli Stati Uniti si impegnassero ad una riconversione verso il 100% di rinnovabili da qui a metà secolo, più di 650.00 nuovi posti di lavoro sarebbero creati da qui al 2030 e 27.000 vite umane sarebbero salvate ogni anno. I risparmi realizzati attraverso la riduzione delle importazioni di combustibili fossili sarebbero pari a 160 miliardi di dollari. Infine, mantenendo la promessa di allocare risorse consistenti al fondo ONU per il clima, gli USA consentirebbero ad altri paesi di agire in contrasto ai cambiamenti climatici.

 

RUSSIA: La Russia ha generato gran sorpresa quando, il 31 marzo, ha annunciato un impegno per il 2030 che è il medesimo di quello annunciato per il 2020. In altre parole, il Paese, responsabile del 5% delle emissioni mondiali di gas serra, ripropone per il 2030 gli obiettivi che avrebbe dovuto raggiungere entro il 2020 – ovvero una riduzione compresa fra il 25 ed il 30% rispetto ai livelli del 1990. La Russia, che peraltro si trova ad affrontare una difficile situazione economica, rimane dunque miope di fronte alle opportunità economiche ed industriali aperte dalla transizione energetica. Occorre ricordare che il Paese ha conosciuto una rapida riduzione delle sue emissioni fra il 1990 ed il 2012 a causa del crollo del blocco sovietico e del tessuto industriale che l’accompagnava (circa un 30% di riduzione). Mosca utilizza regolarmente questo argomento. Tuttavia, questa riduzione non si è affatto tradotta in una trasformazione profonda dell’economia russa in termini di riduzione della dipendenza dai combustibili fossili e progresso verso le energie rinnovabili, tutt’altro. Inoltre, Mosca integra nel suo obiettivo al 2030 l’assorbimento di CO2 da parte delle foreste, il governo russo sperando di poter utilizzare le più indulgenti regole di contabilizzazione. Sarebbe stato ben più ambizioso separare i settori energetici, industriali etc. dal settore delle foreste, e applicare a quest’ultimo un obiettivo a parte, mirando a valorizzate lo stock di CO2 assorbito dalle foreste russe.